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  • Immagine del redattorePaola Dei Medici

Il modo in cui ci amiamo e il modo in cui insegniamo agli altri ad amarci

Frequentemente, nel linguaggio comune, concetti che provengono dall’ambito psicologico si intersecano con le parole di uso quotidiano creando così un ambito semantico che sta a metà tra la possibilità di una riflessione sul fenomeno che si vuol designare e il tentativo, spesso maldestro, di denigrarlo. Si tratta della tendenza diffusa ad attribuire etichette diagnostiche, tra le quali quella di narcisista sembra essere quella più in voga, a chiunque non soddisfi le nostre aspettative, evocando la psicopatologia nei termini di un suo presunto potere punitivo, piuttosto che per la comprensione che può offrire riguardo un certo funzionamento.

Non di rado, infatti, capita di leggere su blog e social network libretti d’istruzione per riconoscere il vampiro affettivo in cui ci siamo malauguratamente imbattuti accanto a decaloghi risolutivi per uscire da relazioni dolorose, neanche troppo sottilmente focalizzati sulle colpe dell’altro, sulla sua incapacità di amare o sul narcisismo patologico che gli impedirebbe di vivere relazioni sane.

Gabbard, psichiatra e psicanalista statunitense di fama mondiale, in un lavoro del 1995, riconosceva le enormi difficoltà a “determinare quali tratti indichino un Disturbo di personalità narcisistico e quali tratti siano dei semplici adattamenti culturali”. Il fatto che molti di questi spazi virtuali siano gestiti da persone prive di alcuna competenza legittimamente riconosciuta in materia e, fatto assai più grave, che le presunte “diagnosi psicologiche” vengano fatte a distanza e a soggetti terzi, dovrebbe indurre chi li frequenta ad una accurata riflessione. Inoltre, per quanto questa modalità sembra offrirci una illusoria possibilità di potere, lasciarsi sedurre da decaloghi di dubbio valore scientifico per riconoscere nell’ex l’ennesimo manipolatore relazionale di turno, non ci restituirà la serenità perduta.


Sia ben chiaro, il narcisismo esiste. Narciso, lo sanno tutti, era un giovane bellissimo circondato dall’ammirazione di quanti lo incontravano, ma alle offerte d’amore, che pure lo gratificavano, restava indifferente. Un giorno, di Narciso si innamorò la ninfa Eco che, non ricambiata e respinta, si consumò di dolore fino a morirne. Di lei rimase solo il ritorno della sua voce, l’eco appunto. Il mito di Narciso ci consente di comprendere come, a diversi livelli, le persone con una struttura narcisistica manifestino difficoltà relazionali significative, impegnate, come sono, in un costante bisogno di apparire attraenti e a proiettare sugli altri inconfessabili sentimenti di disprezzo e disistima che, in fondo, provano per se stessi. Così accade che le persone che entrano in relazione con loro si sentano continuamente svalutate, anche senza che necessariamente si mettano in scena modalità palesemente ostili.


Tuttavia, continuare a domandarsi perché l’altro non sia capace di amore o perché assuma comportamenti svalutanti nel rapporto di coppia, non serve a proteggerci dal rischio di restare intrappolati in quella relazione o di intraprendere un nuovo rapporto con un partner distante e bisognoso di prevaricare. Attribuire la responsabilità al partner o cercare di appioppargli un’etichetta diagnostica sulla base di notizie recuperate su pagine di social network equivale a restare impantanati nelle sabbie mobili di una voragine affettiva, in fondo alla quale si fa fatica a riconoscersi il potere di cambiare le cose. Nella relazione di coppia, ogni partner ha una parte di responsabilità di quello che avviene in un rapporto. Sempre. Se esiste una persona con tendenze alla manipolazione nella relazione, il partner manipolato deve avere altrettante motivazioni per andarsi a cercare un persecutore. Se si sceglie di rimanere in una relazione continuamente svalutante, probabilmente, si sta mantenendo un antico equilibrio disfunzionale di cui il partner di turno ne è lo strumento. In altre parole, la relazione altro non è, per entrambi, che un tentativo disfunzionale di autocura.


«Poco importa [allora] sapere dove l'altro sbaglia», come ha detto Jung, «perché lì non possiamo fare niente. Interessante è sapere dove sbagliamo noi stessi. Perché li si può fare qualcosa...»


Per questo, provare a ribaltare il punto di vista dal “perché lui/lei agisce così?” al “come mai gli/le consento di trattarmi in questo modo?”, ci consente una prima e fondamentale inversione di prospettiva necessaria per ritornare a sé e ai propri bisogni. Le risposte importanti, è ben evidente, non possono risiedere nel tentativo maldestro di affibbiare etichette diagnostiche in virtù di un loro presunto potere punitivo o nell’affidarsi a decaloghi risolutivi per sottrarsi alla relazione in cui siamo nuovamente incappati.



Le risposte sono dentro di noi, in quello spazio di vuoto che per troppo tempo si è fatto finta di non vedere cercando riparo nel frastuono di rapporti insoddisfacenti. È solo penetrando in quel silenzio intriso della percezione di non essere abbastanza, della convinzione che, prima o poi, grazie al nostro amore e alla nostra premura, riusciremo a cambiare l’altro, che sarà possibile rinnovare i quadri con cui arrediamo la nostra psiche. Il miracolo dell’amore non consiste nel cambiare l’altro, semmai nella possibilità che, attraverso l’altro, ci è data di cambiare noi stessi. Per esempio, facendo quanto è possibile per ritrovare in noi stessi il senso del nostro vivere, senza delegarlo al valore che l’altro è disposto a riconoscerci.

Il modo in cui ci amiamo resta sempre la migliore approssimazione del modo con cui insegniamo agli altri ad amarci.


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