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  • Immagine del redattorePaola Dei Medici

Quanto è lungo un mese?

Quanto appaiono lontani i giorni in cui cantare dai balconi ci sembrava un esercizio di italianità per esorcizzare l’ansia che sentivamo corroderci lo stomaco? Come è cambiata in queste settimane la percezione di ognuno di noi rispetto a quello che sta accadendo?


Da oltre un mese siamo racchiusi fra le mura di casa, procediamo a piccoli passi all’interno del nostro spazio personale. Lo spazio pubblico, l’acqua in cui nuotiamo, da molte settimane non ci appartiene più: imprevisto e imprevedibile è quello che viviamo. Mentre il tempo che dominava le nostre vite sembra aver perso valore in un processo di dilatazione all’infinito, lo spazio si è riappropriato delle città.


Dopo, ci diciamo, non sarà più lo stesso.


L’intero mondo occidentale si vede costretto a dover fare i conti con sé stesso. Nella durezza delle giornate senza abbracci, del lavoro che ha varcato la porta di casa, e della vita senza la vita, sembra nascere in ognuno di noi l’esigenza di cercare nomi all’altezza del passaggio d’epoca, di «cartografare contrade a venire» (Deleuze e Guattari). Ci diciamo spesso in prima persona, in questo tempo, come se il virus più di altro ci costringesse, nel momento di articolare un qualsiasi discorso, a “partire da noi”, a dichiarare nella maniera più trasparente possibile il punto da cui si osserva. A esplicitare (innanzitutto a se stessi) il rapporto che si ha con il fenomeno del Covid-19 e, quindi, con la vita. È lo sforzo di pensarsi al di fuori dei parametri della quotidianità, della produttività, della performance.


Ci raccontiamo di un tempo sospeso, anche se l’orologio non ha smesso di camminare, come se la quarantena avesse decretato un grande intervallo nel quale mettere fra parentesi la vita. Quella che si sta verificando, sembra la diffusione di una retorica, del “adda passà a’ nuttata” di De Filippo, in virtù della quale "fra qualche mese rideremo di 'sto momento" e saremo pronti a riprendere da dove abbiamo lasciato. Ma sarà davvero così? Quali configurazioni del prima e del dopo comporta questa cesura?


Al di là dei proclami ottimistici del racconto consolatorio del “saremo migliori”, “riscopriremo l’umanità e la fratellanza”, probabilmente, occorre cominciare a considerare la possibilità che il futuro da costruire potrebbe non rappresentare il secondo tempo di un film interrotto. Ci diciamo trasformati e che la lentezza ci ha fatto da maestra. Ci raccontiamo che un tempo nuovo ci aspetta e che saremo più consapevoli di quello che siamo, che consumeremo con più criterio per un po’ e metteremo a fuoco con più realismo i nostri legami affettivi e i nostri investimenti, non solo economici. Sarà davvero così?


Chissà! Sarà come sarà, avrebbe detto De Gregori! E, forse, dipenderà dalla capacità di riconoscere ed accettare che anche ciò che appariva impensabile è accaduto e può accadere. C’era bisogno del coronavirus? Qualcuno dirà. Sarebbe stato meglio non ci fosse mai stato, ma la storia non si scrive con i sé e con i ma, il coronavirus c’è, e mentre il mondo scientifico è all’opera per studiarlo e controllarne gli andamenti, possiamo concepire questa esperienza come un’opportunità pedagogica senza pari, che può essere arricchente, se siamo capaci di intercettare quali risonanze emotive ha dentro di noi.

Nessuno, questo è certo, tornerà quello di prima.


Ogni narrazione è ricettacolo di vissuti personali. La pandemia ci sta offrendo l’occasione di misurare i nostri territori interni, di capire quali vulnerabilità ha impattato, quali risorse ha sollecitato. Non saranno pochi quelli che, malgrado tutto, si ritroveranno cresciuti e per molti aspetti rafforzati, perché avranno scoperto (o riscoperto) bisogni, desideri e valori con i quali ripensare se stessi, gli altri e le relazioni. Saranno quelli che avranno saputo prendersi cura di quello che la pandemia ha lasciato in eredità. Certamente, chi in questo momento si trovasse già ad aver iniziato un percorso di consapevolezza di sé, avrebbe nella stanza di cura (per quanto, ad oggi, virtuale) il contesto più comodo per incontrarsi. Tuttavia, provare ad abbozzare da sé una cartina della propria geografia interiore, come trasposizione del paesaggio che ci è toccato in sorte in disegno a mano libera, può essere molto utile. Significa, forse, cominciare a poter leggere il modo in cui stiamo tratteggiando dentro di noi questo evento e, probabilmente, scoprire che anche l’angoscia e la paura sono oggi tratti importanti e chissà, magari funzionali, alla nostra opera.

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