Kevin Love è un giocatore di basket NBA che vive la sua vita perfetta, fino al giorno del suo primo attacco di panico.
"Il 5 Novembre, durante la partita, ho avuto un attacco di panico. È arrivato dal nulla. Non ne avevo mai avuto uno prima. Non sapevo nemmeno se fosse reale. Ma era reale - reale come una mano fratturata o come una distorsione alla caviglia. Se stai soffrendo silenziosamente così come ho sofferto io, allora anche tu sai come ci si sente quando sembra che nessuno ci capisca. In parte, voglio farlo per me, ma più di tutto voglio farlo perché le persone non parlano abbastanza. E gli uomini sono più indietro da questo punto di vista.
Lo so per esperienza. Crescendo, impari in fretta a comportarti da maschio. Impari cosa significhi “essere un uomo”. È come uno schema di gioco: Sii forte. Non parlare dei tuoi sentimenti. Naviga in solitario. Così per 29 anni della mia vita ho seguito questo schema. E occhio, probabilmente non ti sto dicendo niente di nuovo. Il fatto che l'uomo debba essere o mostrarsi forte a ogni costo è diventato ordinario.
Così, per 29 anni, ho concepito la salute mentale come se fosse il problema di qualcun altro. Sapevo che alcune persone traevano beneficio chiedendo aiuto ma non ho mai pensato che io potessi essere una di queste persone. Per me era una forma di debolezza che poteva far deragliare i miei successi sportivi o farmi sembrare strano o diverso. Poi è arrivato l’attacco di panico.
Era il 5 Novembre, due mesi e tre giorni dopo che ho compiuto 29 anni. Una tempesta perfetta di inquietudini personali si stava per scatenare. Ero stressato per problemi che stavo avendo con la mia famiglia. Non dormivo bene. Sul campo, penso che le aspettative della stagione mi stessero schiacciando. Quando mi sono seduto in panchina, ho sentito il mio cuore battere più velocemente del solito. Poi ho cominciato ad avere problemi a respirare. È difficile da descrivere, ma tutto girava velocemente, come se il mio cervello stesse cercando di arrampicarsi fuori dalla mia testa. Sentivo l’aria fitta e pesante. La mia bocca era come impastata. Ricordo che il nostro assistant-coach ha urlato qualcosa su uno schema difensivo. Io ho annuito, ma non ho ascoltato molto di cosa dicesse. Da quel punto in poi, ero terrorizzato. Sono scappato negli spogliatoi. Correvo da stanza a stanza come se stessi cercando qualcosa che non riuscivo a trovare. In realtà, speravo soltanto che il mio cuore la smettesse di battere forte. Era come se il mio corpo mi stesse cercando di dire “Stai per morire”. Sono finito sdraiato a terra nella sala riscaldamento, disteso di schiena, cercando di prendere abbastanza aria per respirare. Da lì in poi i miei ricordi sono confusi.
Sono tornato in campo due giorni dopo [...] mi sentivo sollevato nell’essere di nuovo in campo e sentirmi sempre più me stesso. Ma ricordo bene che mi sentivo sollevato più di ogni altra cosa per il fatto che nessuno avesse scoperto perché avevo abbandonato la partita contro Atlanta. Passato qualche giorno, le cose andavano alla grande in campo, ma qualcosa mi stava opprimendo. Perché mi preoccupava così tanto che la gente potesse scoprire qualcosa? In quel momento, mi si è accesa una lampadina. Ho pensato che il peggio fosse passato dopo l’attacco. Invece era il contrario. In quel momento mi stavo chiedendo perché fosse successo e perché non volessi parlarne. Chiamatelo stigma, o paura, o insicurezza, o in mille altri modi, ma quello che mi preoccupava non era solo la mia lotta interiore ma quanto difficile fosse parlarne. Non volevo che la gente mi percepisse come qualcuno di poco affidabile come compagno di squadra, perché questo era lo schema che avevo imparato sin da piccolo. Stavo navigando a vista. Ma ero sicuro di una cosa: non potevo seppellire cosa era successo e andare avanti. Per quanto lo volessi, non potevo permettere a me stesso di sminuire l’attacco di panico e tutto ciò che lo riguardasse. Non avrei voluto più fronteggiare una cosa del genere in futuro, quando sarebbe potuto essere peggiore. Di questo ero certo.
Così ho fatto una cosa apparentemente piccola diventata poi grande.
Mi hanno aiutato a cercare uno psicoterapeuta e ho preso un appuntamento.
Nota margine: non avrei mai pensato di rivolgermi a un terapeuta.
In squadra? Nessuno parlava delle proprie battaglie interiori. Ricordo che pensai “Che problemi potrei mai avere? Sono sano. Mi pagano per giocare a basket. Di che mi dovrei preoccupare?” Non avevo mai sentito un atleta professionista parlare di salute mentale e non volevo essere l’unico. Non volevo sembrare debole. Onestamente, non pensavo ne avessi bisogno. È come lo schema che dice: - Affrontala da solo, come fa qualsiasi altra persona attorno a te. A pensarci bene, è ridicolo. Nell’NBA sei costantemente seguito da diversi professionisti il cui lavoro è gestire aspetti anche minuscoli della tua vita. I coach, gli allenatori, i nutrizionisti sono stati una presenza fissa nella mia vita per anni. Ma nessuna di queste persone avrebbe avuto le conoscenze professionali necessarie per aiutarmi quando ero lì, disteso per terra, lottando per respirare. Ciò nonostante, andai al primo appuntamento con lo psicoterapeuta con un po’ di scetticismo. Ero riluttante, ma mi sorprese. Innanzitutto, perché per una volta il basket non era l’argomento principale. Avevo la sensazione che l’NBA non fosse la principale ragione del perché io fossi lì quel giorno. Invece, abbiamo parlato di tutt’altro e ho realizzato quanti problemi arrivano da parti diverse della tua vita, che non concepisci appieno finché non le osservi nel dettaglio. Io penso che sia semplice dare per scontato che conosciamo noi stessi, ma una volta che vai in profondità è sorprendente quando ci sia ancora da scoprire. Una delle cose più innovative mi è successa un giorno a Dicembre, quando ho parlato di mia nonna Carol. Era il pilastro della nostra famiglia. Ha vissuto con noi, e in tanti modi lei è stata come un altro genitore per me, mio fratello e mia sorella. Quando se ne andò (...) fui devastato dal dolore per molto tempo, ma non ne avevo mai parlato realmente a qualcuno. Dire a uno sconosciuto di mia nonna avrebbe mostrato quanto dolore mi stesse dando. Scavando nella cosa, mi son reso conto che quello che più mi feriva era non essere stato capace di salutarla adeguatamente. Non avevo mai avuto un momento di vero e proprio lutto, e mi sentivo malissimo al pensiero di non essere stato molto in contatto con lei nei suoi ultimi anni. Ma avevo seppellito queste emozioni da quando lei era morta e avevo detto a me stesso: “Pensa al basket. Al resto penserai dopo. Sii uomo.”
La ragione per cui parlo di mia nonna non è strettamente legata a lei. Mi manca tantissimo e probabilmente sto ancora soffrendo in un certo senso, ma io volevo raccontare questa storia per via di quanto l’atto stesso di raccontarla fosse una rivelazione. Ho potuto osservare il potere di dire le cose ad alta voce in quel contesto. E non è un processo magico. È terrificante, strano e difficile, almeno per quanto mi riguarda. Lo so che non ti liberi dei problemi semplicemente parlandone, ma ho imparato nel tempo che puoi andare avanti e migliorare capendoli e padroneggiandoli. Guarda, io non sto dicendo che ognuno dovrebbe vedere un terapista. La lezione più grande che ho imparato è quella di confrontarmi col fatto che avessi bisogno di aiuto. Una delle ragioni per cui ho scritto questo pezzo arriva dall’aver letto le parole di DeMar (DeRozan) sulla sua depressione. Non ho mai sospettato che stesse combattendo contro qualcosa. Ti fa pensare come tutti abbiamo le nostre esperienze e le nostre battaglie e a volte ci sembra che siamo gli unici ad averne. La realtà è che abbiamo probabilmente molto in comune con quello che i nostri amici, colleghi e vicini stanno affrontando. Con questo non sto dicendo che ognuno dovrebbe condividere i suoi più profondi segreti, non tutto va reso pubblico ed è una scelta personale. Ma dovremmo creare le condizioni migliori per parlare di salute mentale, è questo che dobbiamo fare. Perché solo condividendo probabilmente aiutiamo le persone a capire che non sono pazze se combattono con la depressione o con l'ansia. Condividere, contribuisce a ridurre lo stigma sulla salute mentale, e a dare speranza. Io non ho ancora ben chiara la mia situazione. Sto facendo il lavoraccio di capire me stesso. Per 29 anni, l’ho evitato. Sto cercando di essere onesto con me. Sto cercando di essere gentile nei confronti delle persone che contano nella mia vita. Sto cercando allo stesso tempo di affrontare tutto questo male e di godere ed essere grato per tutto il bene che c’è nella mia vita. Sto cercando di vivere appieno. Voglio chiudere con qualcosa che sto cercando di ricordarmi in questi giorni: Tutti stanno passando qualcosa che noi non riusciamo a vedere. Lo voglio scrivere di nuovo: tutti stanno attraversando qualcosa che non riusciamo a vedere. La salute mentale è una cosa invisibile ma riguarda tutti noi. È parte della vita. Quello che fai per tirare avanti a campare non è ciò che ti rende unico. Questo riguarda tutti. Non importa chi sei, abbiamo tutti qualcosa che ci fa male e ci fa più male se continuiamo a tenerla dentro. [...] Quindi se stai leggendo e stai avendo un momento difficile, non importa quanto difficile sia, voglio ricordarti che non sei diverso solo perché condividi quello che stai passando. E' il contrario. Potrebbe essere la cosa più importante che tu abbia mai fatto, come è stato per me. Leggi l'articolo originale: https://www.theplayerstribune.com/kevin-love-everyone-is-going-through-something/
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